Presidente, do per letta la relazione al Disegno di Legge che abbiamo depositato, sorvolando gli aspetti meramente tecnici, di adeguamento a normative statali o alle Intese Stato-Regione raggiunte.
Con questa proposta è intenzione della Giunta emanare una legge per regolamentare gli orari e le giornate di apertura e chiusura dei negozi nella nostra Regione.
Infatti, per risolvere i problemi del Paese con il Decreto Salva Italia del Governo Monti nel dicembre 2011 è stata introdotta la cosiddetta liberalizzazione selvaggia del settore commerciale, dando la possibilità ai negozi di rimanere aperti sette giorni su sette e, volendo, 24 ore su 24. L’amministrazione regionale era ben consapevole di quanto sarebbe accaduto con l’introduzione di tale normativa e dopo pochi mesi, insieme alle Regioni Piemonte, Veneto, Sicilia, Lazio, Lombardia, Sardegna e Toscana, decise di sollevare questione di legittimità costituzionale avverso il Decreto del Governo. Tutti i ricorsi vennero successivamente respinti dalla Corte Costituzionale che confermà la legittimità dell’intervento governativo in quanto venne riconosciuta l’esclusiva potestà legislativa in materia di concorrenza allo Stato e non alle Regioni come erroneamente sostenuto nei ricorsi. Purtroppo, a distanza di quattro anni da quel pronunciamento non possiamo che confermare le nefaste previsioni delle amministrazioni ricorrenti su quelli che sarebbero stati gli esiti di tale riforma.
Abbiamo troppe volte sentito argomentare come la necessità di addivenire alla deregolazione in ambito commerciale fosse un’imposizione della Comunità Europea, soprattutto per adeguarsi a quanto previsto dalla Direttiva Bolkestein. Eppure, con riferimento al principio comunitario di libera prestazione di servizi è stato ormai accertato che le normative nazionali sui giorni ed orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali non sono incompatibili con le disposizioni del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea e la direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006.
Già nel 2012 la Regione Veneto ricordava che il diritto di stabilimento nei Paesi membri è riconosciuto agli operatori economici senza discriminazioni, ma pur sempre nel rispetto delle specifiche normative nazionali riguardanti i motivi imperativi di interesse generale, per la tutela dei quali è consentito uno spazio di operatività per il diritto interno e, dunque, anche per la legislazione regionale.
Per questi motivi dall’inizio di questa XVII legislatura presso il Parlamento Italiano (accanto ad una proposta di legge di iniziativa popolare) sono state presentate numerose proposte di legge con cui diverse forze politiche hanno chiesto di rivedere l’introdotta liberalizzazione nel settore commerciale. I lavori parlamentari hanno portato all’approvazione nella Commissione Attività Produttive della Camera dei Deputati di un testo unificato che prevede l’obbligo di chiusura dei negozi in dodici festività, permettendo ad ogni imprenditore di derogare fino a un massimo di sei giornate di chiusura, previa comunicazione al comune competente.
Se questa soluzione, frutto di un compromesso tra i partiti ci appare del tutto insufficiente, tale deve apparire anche agli occhi della Giunta Regionale che con il presente Disegno di Legge sostiene la necessità di chiudere i negozi obbligatoriamente in nove delle dodici festività riconosciute, senza deroghe.
Richiamando quanto sin qui riportato, risulta del tutto limitativo non affrontare il vero problema che ha creato una significativa disparità tra i grandi negozi e quelli più piccoli, ovvero la possibilità per i Grandi Centri di poter rimanere aperti sette giorni su sette. Nelle intenzioni del Governo questa doveva essere una misura ditutela della concorrenza. Invece, come la stessa Regione Friuli Venezia Giulia evidenziava già nel suo ricorso del 2012, tale misura si è rivelato un fattore distorsivo. Secondo l’amministrazione la norma avrebbe finito per avvantaggiare gli operatori più grandi che per la ampiezza e complessità della loro organizzazione sarebbero stati in grado di mantenere l’apertura per sette giorni su sette e per un orario non limitato, rispetto agli operatori familiari o comunque minori, che, per limiti di personale, non potrebbero competere, neppure sottoponendosi ad un regime di autosfruttamento. Regime che contraddirebbe il diritto costituzionale al riposo. Non avrei saputo dirlo meglio…
A distanza di pochissimi anni i risultati di quanto profetizzato nella nostra Regione si sono tradotti con la chiusura di migliaia di esercizi commerciali e un calo del fatturato pari al 14% per la piccola e media distribuzione di generi alimentari e -5,5% di generi non alimentari, a fronte di cifre ben più contenute per la Grande Distribuzione (-1,9% per i generi alimentari e – 3,5% per i generi non alimentari).
Con questo disegno di legge si evidenzia come, secondo il diritto comunitario, si possano prevedere alcuni limiti all’esercizio delle attività economiche, per motivi imperativi di interesse generale, nel rispetto dei principi di proporzionalità e non discriminazione.
Ricordiamo che secondo i dettami della Corte di Giustizia per motivi imperativi di interesse generale sono intesi –tra gli altri- l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza, gli obiettivi di politica sociale, la tutela dei destinatari di servizi, la tutela dei consumatori, la tutela dei lavoratori, la prevenzione della frode, la prevenzione della concorrenza sleale, la protezione dell’ambiente urbano, la salvaguardia dei valori sociali, culturali, religiosi e filosofici.
È proprio sulla base di questi principi che riteniamo possibile e legittimo intervenire per regolamentare alcuni aspetti del settore terziario, che, altrimenti, andrebbero a ledere molti degli interessi generali sopra richiamati.
Direttiva Bolkestein cosa dice? Dice che conformemente alla giurisprudenza della Corte di giustizia tali motivi imperativi possono giustificare l’applicazione di regimi di autorizzazione e altre restrizioni.
Tuttavia, tali regimi di autorizzazione o restrizioni non dovrebbero discriminare in base alla nazionalità. Inoltre, dovrebbero essere sempre rispettati i principi di necessità e proporzionalità.
Al fine di coordinare la modernizzazione delle norme e regolamentazioni nazionali in modo coerente con le esigenze del mercato interno, è necessario valutare taluni requisiti nazionali non discriminatori che, per le loro caratteristiche proprie, potrebbero sensibilmente limitare, se non addirittura impedire, l’accesso a un’attività o il suo esercizio nell’ambito della libertà di stabilimento. Tale processo di valutazione dovrebbe essere limitato alla compatibilità di detti requisiti con i criteri già stabiliti dalla Corte di giustizia in materia di libertà di stabilimento. Esso non riguarda l’applicazione del diritto comunitario della concorrenza. Detti requisiti, qualora siano discriminatori o non giustificati obiettivamente da motivi imperativi di interesse generale o sproporzionati, devono essere soppressi o modificati. L’esito di tale valutazione sarà diverso a seconda della natura delle attività e dell’interesse generale considerati. In particolare, conformemente alla giurisprudenza della Corte di giustizia, tali requisitipotrebbero essere pienamente giustificati quando perseguono obiettivi di politica sociale.