Relazione al DDL 59 “Riordino dell’assetto istituzionale e organizzativo del Servizio sanitario regionale e norme in materia di programmazione sanitaria e sociosanitaria”
Andrea Ussai
Movimento 5 Stelle
Signor Presidente, Assessori, Consiglieri,
per poter valutare il disegno di legge presentato dalla Giunta per riformare la Sanità regionale, non possiamo che partire innanzitutto da una panoramica della situazione attuale dei servizi, per poter poi evidenziare in un secondo momento quelli che sono, a nostro avviso, i rischi, le criticità ma anche i potenziali vantaggi della presente proposta.
Il Servizio Sanitario Regionale del FVG è riconosciuto da tutti come uno dei migliori in Italia, ha Enti che raggiungono livelli di eccellenza e una gestione economica che, nonostante gravi per intero sul bilancio della regione, negli ultimi anni ha sempre chiuso in pareggio. Con un avanzo pro capite cumulato che nel periodo dal 2001 al 2012 è stato di 171 euro, presentando la migliore situazione di equilibrio economico finanziario di lungo periodo nel Paese.
Merito questo da attribuire a tutti gli operatori che, nonostante il blocco del turnover e dei salari, continuano quotidianamente a lavorare con passione, dedizione, competenza ed impegno.
Ma nonostante il sistema presenti nel suo complesso buoni e a volte ottimi livelli di qualità, si evidenziano innumerevoli criticità e grandi margini di miglioramento sia rispetto all’appropriatezza della risposta sanitaria, sia rispetto a una distribuzione delle risorse ancora poco equa ed efficiente.
Infatti, se il cambiamento epidemiologico della popolazione ci impone come principale problema da risolvere, rispetto alla sostenibilità del Servizio Sanitario Regionale, la gestione della cronicità, dall’altro lato l’assistenza territoriale, cioè il luogo più adatto per il trattamento di queste patologie, dove si crea gran parte della Salute delle persone, non è riuscita ancora a svilupparsi in maniera adeguata ed omogenea su tutto il territorio regionale.
L’aziendalizzazione inoltre ha comportato una vera e propria concorrenza tra le aziende sanitarie, con addirittura stucchevoli lotte e “scarica barili” tra i direttori delle aziende ospedaliere e sanitarie nelle zone dove si trovano a gestire, in maniera separata, il medesimo bacino di utenza. Atteggiamento questo che di certo non ha giovato ai percorsi di salute e alla continuità delle cure dei cittadini.
In questo contesto, a cui dobbiamo aggiungere anche un sensibile calo di risorse a disposizione del bilancio della regione, pensare ad una riforma sanitaria può essere certamente opportuno, anche se forse quello di cui avremmo avuto maggiormente bisogno in questi anni è una regia forte, che si occupasse – certo – dell’ordinaria manutenzione del sistema, ma che facesse anche scelte coraggiose e difficili come il taglio degli sprechi, dei doppioni e la riconversione delle strutture che non corrispondono a standard di sicurezza.
Con la Riforma quindi la Giunta si propone di intervenire sulle numerose criticità del sistema: sui ritardi rispetto agli adempimenti nazionali, sulla tenuta del SSR (sotto il profilo economico) e sulla rimodulazione dell’offerta dei servizi sulla base delle mutate esigenze della popolazione.
Ma si sa, di buone intenzioni sono lastricate le vie che portano all’inferno, ed è così che la riforma della Sanità della giunta Serracchiani, sebbene partisse da presupposti condivisibili, è arrivata a un testo definitivo che risulta essere per molti versi campato in aria e poco chiaro.
Le imprecisioni e gli errori, denunciati per primi dai professionisti auditi in commissione, sono il sintomo di una mancata condivisione e di un agire frettoloso, volto più a dimostrare che si sta facendo qualcosa che al farlo bene.
Ma la cosa più grave non sono le dimenticanze nelle schede ospedaliere, di qualche funzione o di qualche reparto, ma la totale assenza di dati o di una relazione tecnico finanziaria, che quantifichi i risparmi e/o i costi che questa riforma comporterà nel breve e nel lungo periodo.
Se uno dei principali motivi che impongono la necessità di predisporre la riforma sanitaria è quello di garantire la sostenibilità economica del sistema, come è possibile che di questo nel testo non si faccia nessun cenno?
Ci troviamo quindi, per molti versi, davanti ad un libro dei sogni che non sappiamo se e quando riusciremo a realizzare.
Inoltre, se la scelta del modello organizzativo che prevede la fusione tra le aziende territoriali e quelle ospedaliere potrebbe, dopo aver risolto i problemi che impediscono una fusione immediata, portare ad un miglioramento sia della continuità delle cure che dell’uso delle risorse, ci chiediamo perché sia mancato il coraggio di tagliare ulteriormente il numero delle aziende per arrivare almeno a un rapporto rispetto al numero di abitanti che si avvicini alla media nazionale, che è di una azienda sanitaria ogni 410 mila abitanti. Ma soprattutto perché si sono accorpate aziende che non hanno niente in comune tra di loro, come l’Azienda Bassa Friulana e quella Isontina, o il distretto del S.Danielese con la montagna, gettando alle ortiche quelle collaborazioni e quei percorsi che erano ormai consolidati. Evidentemente il non aver inserito gli ospedali di rete (spoke) assieme agli ospedali di riferimento (hub) corrisponde ad una suddivisione delle aziende che risponde più ad interessi politici che ad un’organizzazione che abbia a cuore i percorsi di salute del cittadino.
Nonostante l’asserita volontà di “mettere il cittadino al centro” quindi, queste scelte ci appaiono poco comprensibili se non in termini di redistribuzione dei poteri.
Chiederemo quindi un ripensamento nella divisione territoriale delle Aziende per l’assistenza sanitaria, auspicando che prevalga il buon senso.
Un altro punto critico è la riconversione completa dei piccoli ospedali in “presidi ospedalieri per la salute” per lo svolgimento di attività distrettuali sanitarie e sociosanitarie.
Strutture che, dalle dichiarazioni della Presidente, non dovrebbe essere oggetto di alcun taglio, ma che in realtà, da quanto riportato nell’articolato, subiranno nel tempo una profonda riorganizzazione cancellando un modello di gestione integrato, utile sia ad uno sviluppo culturale dei professionisti che alla presa in carico degli assistiti. Così facendo si rischierebbe anche di indebolire l’azione di filtro per ricoveri impropri e di supporto all’Ospedale per acuti, che potrebbe trovarsi ulteriormente congestionato.
Se nulla verrà toccato perché non è stato messo in legge il mantenimento della Struttura complessa di Medicina interna e Post acuzie?
Maggiori delucidazioni andrebbero fornite anche rispetto alla garanzia del servizio di emergenza/urgenza nelle periferie. È ragionevole pensare che in un sistema ove la cronicità è affidata al territorio nelle 24 ore, vi debba essere comunque un sistema d’emergenza medicalizzato atto a filtrare e a soccorrere non solo l’acuto ma anche il cronico che si scompensa e che non potrà essere trattato certamente dalle aggregazioni di medici di Medicina generale.
Se si riducono i posti letto, se chiudiamo i pronto soccorso nelle ore notturne, se chiudiamo i piccoli ospedali che davano risposta all’acuto, come pensiamo che i nostri cittadini possano avere delle cure valide e non solo essere trasportati al più vicino pronto soccorso da un’ambulanza con personale volontario o con seppur validissimi infermieri che però non sono abilitati a svolgere interventi di carattere medico? Perché non sfruttare la presenza dell’emergenza territoriale per mettere in sicurezza capillarmente il territorio assieme al collega della continuità assistenziale?
Alcuni punti di pronto soccorso avanzato con automedica potrebbero sopperire alla lontananza dai pronto soccorsi hub e potrebbero così effettuare trasporti protetti con medico ed infermiere presso le strutture maggiormente attrezzate e sicure.
Purtroppo su questi temi abbiamo avuto solamente rassicurazioni ma nel merito nessuna risposta.
L’obiettivo non è tanto una difesa di stampo campanilistico o la difesa del posto letto, ma piuttosto organizzare e riqualificare i servizi al fine di offrire le giuste tutele in termini di tempestività e sicurezza, soprattutto nella capacità di trattare non solo la cronicità ma anche le emergenze e dare risposte sui territori in cui si vive l’effettivo bisogno di salute. Tutto ciò non può venire realizzato senza un’analisi approfondita della realtà locale dove si vuole intervenire, non solo a livello regionale, ma anche al livello di comunità, l’unica che conosce realmente le criticità e le potenzialità di un territorio (come ad esempio la carenze di mezzi di trasporto o le risorse del tessuto sociale come associazionismo e volontariato), ma sia nella costruzione della legge che nell’articolato, almeno inizialmente, non veniva dato nessuno spazio al ruolo di queste risorse e alla sussidiarietà orizzontale, che risulta indispensabile per garantire l’integrazione delle cure.
Esprimiamo quindi forti perplessità su una progettualità non condivisa con gli operatori del sistema e non spiegata in modo trasparente al cittadino, stigmatizzando la logica di stampo paternalistico che vede gruppi di saggi, peraltro sconosciuti, che fanno analisi, preparano proposte e le calano dall’alto.
Un punto che ci sembra qualificante della riforma è la valorizzazione delle professioni sanitarie. Speriamo che finalmente sia arrivato il momento di slegare definitivamente le professioni sanitarie dall’antica idea di subalternità gerarchica dalla professione medica e che i tempi siano maturi per un pieno compimento della L.R. 10/2007. Ci auguriamo che nel passaggio in aula non si cancelli questo punto di forza della riforma.
Per una vera sostenibilità del SSR infatti l’unico mezzo efficace è puntare sulla prevenzione e su un cambio culturale dei cittadini e degli operatori.
I servizi sanitari spiegano solo l’11% della mortalità prevenibile, il rimanente 89% è associato a stili di vita, fattori ambientali sociali e culturali.
Occorre modificare la cultura della salute, coinvolgere professionisti, pazienti e cittadini, promuovere incontri, formare le persone, cambiare decine di comportamenti e abitudini, investire denaro, stringere alleanze e intervenire sui potenti poteri economici, un’impresa difficile che molti giudicano impossibile. Attualmente esiste una grave divaricazione tra gli interessi degli erogatori da una parte e dall’altra quelli del servizio sanitario pubblico ovvero della salute della comunità dei cittadini. Bisogna allineare le convenienze dei diversi attori in sanità alla salute della comunità degli assistiti. In sintesi, a nostro modo di vedere, al di là del modello istituzionale che si vuole sposare per una vera riforma della sanità che possa rendere sostenibile il sistema, si dovrebbe smettere di finanziare e di incentivare le prestazioni sanitarie incominciando a darsi obiettivi e un modello di finanziamento che “paghi la salute”.